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NOTE BIOGRAFICHE

Beppe Severgini nasce nel 1956, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Pavia e dopo un tirocinio a Bruxelles presso l’Unione Europea (al tempo ancora CEE), ha cominciato a lavorare ventisettenne per Il Giornale di Indro Montanelli. Negli anni a cavallo della crisi del regime comunista ha fatto l’inviato speciale da vari paesi dell’Est, comprese Russia e Cina. Dopo aver lasciato Il Giornale ed aver seguito Montanelli a La Voce, si è trasferito come corrispondente dagli USA a Washington. Con la fine dell’esperienza de la Voce è approdato al Corriere della Sera, per il quale lavora tuttora in veste di editorialista e articolista; dal 1998 tiene sul Corriere la rubrica/forum moderato Italians; scrive inoltre per la Gazzetta dello Sport ed è stato corrispondente dall’Italia per The Economist dal 1996 al 2003. Dal 2007 i suoi articoli sono distribuiti anche dal New York Times Syndicate. Nei suoi libri Severgnini cerca di unire sempre l’indagine interculturale a una leggera ironia.

UN ITALIANO IN ITALIA

Nel 2005 è uscito “La testa degli italiani” (o “Un italiano in Italia”), una sorta di guida per capire le peculiarità del popolo italiano. Nel giro di poco tempo il libro è stato tradotto in nove lingue e la versione inglese è stata New York Times Bestseller. Beppe Severgnini, quindici anni dopo aver indagato gli Inglesi e dieci anni dopo Un italiano in America, non ha paura di affrontare l’esplorazione. In questo libro ci propone un viaggio in compagnia di amici stranieri, ai quali viene “tradotto” sistematicamente il paese: le regole imperscrutabili della strada e l’anarchia ordinata di un ufficio, la teatralità di un ipermercato e la loquacità dei treni, la rassicurazione sensuale d’una chiesa e l’importanza di una spiaggia, la solitudine degli stadi e l’affollamento in camera da letto, le ossessioni verticali dei condomini e la democrazia trasversale del soggiorno (anzi: del tinello).

Contenuto

Dieci giorni (10 tappe), trenta luoghi, da nord a sud, dall’alimentazione alla politica, dai recinti della morale allo zoo della televisione. Un’esplorazione ironica, metodica e sentimentale che aiuterà il lettore a capire perché, scrive l’autore, “l’Italia ci manda in bestia e in estasi nel raggio di cento metri e nel giro di dieci minuti“.

Istmo del Patriottismo (da “IL MONUMENTO” pag. 214-215)
Ci piace, la bandiera, ma la esponiamo poco. Ci rassicura, ma non alziamo gli occhi per cercarla. Ci entusiasma, soprattutto dopo una vittoria sportiva, ma non sappiamo giocarci come gli americani, che ne fanno boxer e bikini. Eppure la grande maggioranza degli italiani d’Italia, e tutti quelli che vivono all’estero, sono affezionati al bianco-rosso-verde. Magari non ricordano che l’ordine è verde-bianco-rosso, o non conoscono le parole dell’inno nazionale (l’inizio della seconda parte, “Noi siamo da secoli calpesti, derisi”, è un segreto di stato): ma hanno capito che “patria” non è un concetto egoistico o aggressivo. È invece un mosaico fatto di molte cose: memorie familiari e fantasie collettive, piazze e cimiteri, treni e traghetti, cartelli stradali e vocali musicali, sapore del vino e nomi delle vie, arie d’opera e cantautori, profumo nell’aria e tipo di luce, campi e retrobottega, caselli e castelli, abiti e giornali, brutta televisione e belle ricorrenze, eroi e presunti tali, scollature e scuole.

Bosco dell’Oscurità Verbale (da “IL MONUMENTO” pag. 211)
In pubblico, la gente dice lustri e non cinque anni, volto e non faccia, ventre e non pancia. Basta un microfono e l’oratore presenta omaggi, invece di fare regali. Molti esordiscono con Chiarissimo scrivendo a docenti universitari specializzati in manovre oscure, e tutti chiudono le lettere con Voglia gradire i più distinti saluti (chi li distingue, quei saluti? Nessuno. Ma il mittente si sente tranquillo). Ho letto anche Mentre saluto tutti e ciascuno, colgo volentieri l’occasione per confermarmi con sensi di distinta stima. Questo è il sesto grado della formalità: l’aria è socialmente rarefatta, e gira la testa.

Orrido dell’anarchia (da “LA PIAZZA” pagg. 120-121)
L’anarchia del guidatore e il menefreghismo del fumatore erano postulati italiani. Le prove di un destino nazionale. Nessuno pensava si potesse ottenere un po’ di buon senso sulla strada e nei bar. O convincere qualcuno a rinunciare all’automobile. E invece le “domeniche a piedi”, rese necessarie dall’inquinamento urbano, sono un successo. Perché anche questo, dovete sapere: siamo i migliori al mondo a trasformare un problema in una festa. E siccome i problemi non ci mancano, abbiamo feste assicurate per almeno un secolo. Non è una brutta prospettiva, se ci pensate.

Foresta di Eccezioni (da “IL RISTORANTE” pagg. 38-39)
Cibo e bevande costituiscono una perfetta metafora del paese: un mare di consuetudini ed eccezioni dove voi stranieri rischiate d’affogare. Poi vi soccorriamo, è chiaro. Ma, come tutti i bagnini dopo un salvataggio, pretendiamo riconoscenza.
Prendete il cappuccino: dopo le dieci del mattino è immorale (forse anche illegale). Al pomeriggio è insolito, a meno che faccia freddo; dopo pranzo, invece, è da americani. La pizza a mezzogiorno è roba da studenti. Il risotto con la carne è perfetto; la pasta con la carne, imbarazzante (a meno che la carne sia dentro un sugo). L’antipasto come secondo piatto è consueto; ma il secondo piatto come antipasto è da ingordi. Il parmigiano sulle vongole è blasfemo; ma se un giovane chef ve lo propone, applauditelo. I fiaschi di vino sono da turisti; se sono appesi alle pareti, da gita sociale. Infine l’aglio: come l’eleganza, dev’esserci ma non si deve notare. Le bruschette che offrono in alcuni ristoranti italiani all’estero, in Italia porterebbero alla scomunica.
Una volta un’amica inglese ha definito tutto ciò “fascismo alimentare”. Le ho risposto: esagerata. Hai ordinato il cappuccino dopo cena, e non ti abbiamo nemmeno condannata al confino.

Stato confusionale (da “IL MARCIAPIEDE” pag. 158)
L’apparente confusione d’un marciapiede napoletano è una forma elaborata d’organizzazione, e dimostra come l’impenetrabilità dei corpi non sia una legge, ma un’opinione. In alcuni quartieri il marciapiede viene usato per creare un ingresso dignitoso al proprio basso, costruendoci sopra una tettoia. Nelle periferie è una discarica: materassi e cartoni aspettano lo stracciaio, che passa regolarmente. I pali di metallo messi per impedire la sosta delle automobili servono al parcheggio dei motorini – ubiqui, in una città in salita che ignora le biciclette. Ogni palo, il suo motorino: il proprietario lascia la catena sul posto, per segnalare l’usucapione in corso. Nelle zone di traffico intenso, il marciapiede diventa una corsia preferenziale: i pedoni lo sanno, ed evitano di utilizzarlo.

Spiaggia della Nuda realtà (da “L’UFFICIO” pagg. 145-146)
Gli ardimentosi italiani hanno spesso una riserva, un paracadute, una ruota di scorta, un’alternativa, un parente. C’è chi prova un’attività nuova, ma si guarda bene dal lasciare quella vecchia (il pubblico impiego è pieno di questi casi). E chi annuncia di voler cambiar vita solo quando non può far altro (il consulente al quale non viene rinnovato il contratto).
Kipling, che ammirava quanti hanno il coraggio di “prendere tutte le proprie vincite e gettarle sul piatto”, resterebbe perplesso, dovesse resuscitare in Italia. Noi infatti abbiamo voglia di vincere, ma abbiamo più paura di perdere. Quindi, ci accontentiamo di pareggiare.

Massiccio Egoismo (da “IL GIARDINO” pag. 194)
Il giardino moderno è l’evoluzione laica dell’hortus conclusus dei monaci: uno spazio lontano dalle complicazioni del mondo, fonte di ossessioni e consolazioni. La prova? Pochi di noi mostrano volentieri il giardino; piuttosto, aprono la casa. Il giardino anglosassone, al contrario, è il simbolo della socialità. Programmi radiofonici e riviste, conversazioni e consigli: il gardening, in Gran Bretagna, è un modo di comunicare con gli altri da sobri (poi c’è il pub). Il giardino americano è il centro dell’ospitalità; l’erba rasata, divisa dal driveway, è una forma di benvenuto; il praticello sul retro è il luogo per il rito pagano del barbecue. Noi italiani apprezziamo, ma ci guardiamo bene dall’imitare. Il nostro giardino resta chiuso: nella testa e nei fatti.

Cascata casalinga (da “LA CAMERA DA LETTO” pag. 76)
La “soffitta diffusa” è un prodotto della mente, prima d’essere un luogo nello spazio. Gli attrezzi attempati, le musicassette multiple, le troppe tazze, le pensose pentole, gli scarponi superati, le istruzioni per l’uso di prodotti ormai inutilizzabili: tutto viene messo dove c’è posto. I presepi a riposo, i libri delle medie, i cesti dei regali di Natale, le scatole di ogni forma e colore, le coperte sintetiche, gli antichi caricabatterie, le masse di cavi neri, il mangiadischi, le buste, i ricettari: la nuova soffitta italiana è dovunque e in nessun luogo.
Diverse culture – quella americana in particolare – hanno il trasloco come momento catartico: negli Stati Uniti cambiano casa e buttano via. Noi traslochiamo poco – solo il 20 per cento degli italiani ha cambiato indirizzo negli ultimi dieci anni, metà della media europea – e conserviamo tutto. Viviamo nel museo di noi stessi: un giorno, per entrare, ci chiederemo di pagare il biglietto.

Bivio morale (da “LA CHIESA” pag. 137)
Ricordate cosa dicevo davanti a quel semaforo rosso? Noi italiani pretendiamo di stabilire quando la regola generale si applica al nostro caso particolare. Vale anche per le imposte: siamo la polizia fiscale di noi stessi, e quasi sempre archiviamo il caso con magnanimità.

Ascolto selettivo (da “IL TRENO” pagg. 85-86)
I treni italiani sono luoghi di confessioni di gruppo e assoluzioni collettive: perfetti, per un paese che si dice cattolico. Ascoltate cosa dice la gente, guardate come gesticola: è una forma di spettacolo. Dite che le due cose – confessionale e palcoscenico – sono incompatibili? Altrove, forse. Non in Italia.
Siamo una nazione dove tutti parlano con tutti. Non è stata la modernità a cambiare la piazza del Sud, ma la piazza del Sud a influenzare la modernità italiana. Provate a seguire le conversazioni in questo treno diretto a Napoli (via Bologna, Firenze e Roma). Sono esibizioni pubbliche, piene di rituali e virtuosismi, confidenze inattese e sorprendenti reticenze. “Uno raggiunge subito una nota di intimità in Italia, e parla di faccende personali”: così scriveva Stendhal, e non aveva mai preso un Eurostar.

Angolo della curiosità (da “LA FINESTRA” pag. 127)
Molti italiani, soprattutto nella bella stagione, amano stare alla finestra: non è un modo di perder tempo, né una prova di curiosità morbosa. La finestra è una forma di controllo sociale sul territorio – neighborhood watch, lo chiamano in America – e una scelta filosofica. Gli inglesi siedono su una staccionata (sit on the fence), i cinesi – se bisogna credere ai luoghi comuni – aspettano sulla sponda del fiume. Noi “restiamo alla finestra”: perché è un palco istruttivo, e offre uno spettacolo che ha anticipato il reality show.

Secca delle seccature (da “IL CONDOMINIO” pag. 62)
Perché è importante capire un posto come questo? Perché il condominio è il contrario della piazza, il rovescio della testa degli italiani.
La piazza è la ribellione dell’uomo solo: il posto dove si va per trovare altri. Il condominio è l’alibi dell’uomo sociale: il luogo dove ci si chiude per non veder nessuno. La vicinanza degli altri diventa una fonte di irritazione. Quei rumori oltre il muro, gli ascensori che non arrivano, lo sgocciolio sul balcone, i cigolii nella notte. Il condominio è un incubatore di deliri: interessanti, quando sono di qualcun altro.

Strada Statale (da “LA CHIESA” pag. 227)
L’antipasto è classico: la diffidenza verso l’autorità, coltivata durante secoli di dominazione straniera. Antipasto prevedibile, ma indigeribile: porta infatti a giustificare comportamenti incivili. Un professionista che dichiarasse un quarto del suo reddito, in quasi tutto l’Occidente, si sentirebbe in colpa; in Italia si considera un silenzioso vendicatore.

Incrocio Domestico (da “LA CHIESA” pagg. 227-228)
Il primo piatto è altrettanto rinomato: l’attaccamento familiare, che porta alcuni italiani a ritenere legittimo qualsiasi espediente, purché nell’interesse di congiunti e parenti. “Familismo amorale”, l’ha definito tempo fa un sociologo americano: la tendenza a comportarsi bene in famiglia; e, fuori dalla famiglia, a cercare solo il tornaconto privato. Tesi affascinante, ma semplicista. La famiglia – l’abbiamo visto – è una macchina potente: ma si può guidare, invece di lasciarsi schiacciare.

Aeroporto Interpersonale (da “LA SPIAGGIA” pag. 186)
Noi italiani non abbiamo un’immagine idilliaca del nostro paese, come gli svizzeri o gli svedesi; né un’immagina epica, come gli americani, i russi o i polacchi. Noi abbiamo, dell’Italia, un’immagine festosa. Il caos gradevole è la nostra aspirazione.
Ecco perché oggi siamo qui: la spiaggia è un buon riassunto della nazione. Spogliatevi, guardatevi intorno, e non preoccupatevi se vi guardano. C’è di tutto, in un pomeriggio d’estate: gli esibizionismi, le solidarietà temporanee, l’eleganza preterintenzionale, la cura per il corpo, l’amore per i particolari, l’attenzione per i confini, la delicata oppressione sui bambini, le confidenze tra sconosciuti…

Palude politica (da “L’ORIZZONTE” pag. 240)
Silvio Berlusconi aveva promesso d’essere il comandante che invertiva la rotta, ma si è preoccupato soprattutto del comfort della sua cabina, e s’è incagliato. Prima di affidarsi a lui, la maggioranza degli italiani ha creduto in Mussolini, nel socialismo, nell’America, nei giudici, nell’Europa. Sono tutte incarnazioni dello stesso mito: uno Zorro che arriva, e vince per noi. Ma Zorro è roba da bambini: noi abbiamo bisogno di Cristoforo Colombo. Qualcuno che indichi l’orizzonte, tracci la rotta, dia fiducia all’equipaggio e dimostri, quando serve, di saper reggere il timone.

Insenatura del Senso Estetico (da “L’AEROPORTO” pag. 17)
Cos’altro potete imparare, dentro un aeroporto italiano? Questo: la nostra qualità per eccellenza – la passione per ciò che è bello – rischia di diventare il nostro difetto principale, perché spesso c’impedisce di scegliere ciò che è buono.

Sbalzi d’Umore (da “L’AUTOMOBILE” pagg. 166-167)
Tempo fa la Volkswagen tentò d’esportare in Italia una campagna pubblicitaria televisiva. Protagonista, una berlina ripresa mentre correva sotto la pioggia. In Germania aveva funzionato. Da noi venne subito sospesa. Gli italiani non comprano la macchina per le virtù del tergicristallo: la pioggia ci mette di malumore.

Chiuse Mentali (da “L’ORIZZONTE” pagg. 239-240)
È un’Italia, questa d’inizio ventunesimo secolo, che ricorda Venezia alla fine del diciottesimo: una festa continua, un interminabile carnevale a puntate. “In questa città” raccontava un viaggiatore dell’epoca “tutto è spettacolo, divertimento e voluttà.” Scriveva Indro Montanelli nella Storia d’Italia: “I piaceri compensano l’oppressione e contribuiscono a sopportarla. E la casta dominante veneziana ne fu un’eccellente dispensatrice e regista”.
L’orizzonte, allora e oggi, si riduce al prossimo svago. Le mode illudono gli ingenui, e li convincono di essere moderni. I piaceri servono a far dimenticare la delusione di una classe dirigente che cambia ma non migliora, di un’economia che non cresce e di una giustizia impraticabile: un processo civile che dura in media sette anni è un incentivo per i furbi e una beffa per gli onesti. La gente capisce, ma è impotente. La politica potrebbe, ma sembra non capire.

Provincia del piacere (da “IL BARBIERE E L’EDICOLA” pag. 205)
La vita quotidiana in una piccola città rappresenta un ideale per popoli più organizzati di noi. L’Italia di mezzo piace e convince: un negoziante amichevole sotto casa compensa una notizia spiacevole in televisione. Ecco perché nelle classifiche sulla qualità della vita precediamo paesi come gli Stati Uniti, la Francia o la Germania: perché le consolazioni artigianali valgono quanto le organizzazioni post-industriali. Certo, nel prodotto interno lordo non risultano, ma nella nostra contabilità personale si vedono eccome.

Strada illegale (da “LA STRADA” pag. 25)
La tolleranza è come il vino: un po’ fa bene, troppo fa male. Ricordate le auto lanciate come bolidi sulla corsia di sorpasso? Se parlaste con i conducenti, scoprireste che in Italia il limite di velocità sulle autostrade – centotrenta chilometri l’ora – non è un numero, ma l’occasione per un dibattito. Sembra impossibile che il troglodita che piomba sulle altre auto, lampeggiando come un ossesso, sia in grado di giustificarsi. Invece lo fa, spaziando dall’antropologia alla psicologia, ricordando i principi della cinetica e quelli del diritto, invocando interpretazioni favorevoli e margini di errore, affidandosi alla discrezionalità e alla clemenza dell’autorità.
Per come guida, sarebbe da arrestare. Per come discute, merita una cattedra universitaria. Il poliziotto che l’ascolta pensa: forse è il caso di essere tolleranti. Salvando lui, e condannando tutti noi.

NOTE PERSONALI

Beppe Severgnini ha un modo molto scanzonato di raccontare (a metà tra il serio e il comico) e fare puntiglio alle cose. Dice quello che tutti pensa ma nessuno ammatte sui mali vizi della cultura italiana ma in un modo non pesante, non cattivo, piuttosto divertito. Autoironico. E’ uno specchio dove non sempre ciò che viene riflesso ci piace ma che con coraggio e consapevolezza può esserci di sincero aiuto. Dotarsi di senso di responsabilità e di una fiera consapevolezza nei propri mezzi: così l’ironia può essere costruttiva e i difetti un’opportunità.